30 gennaio 2012

Poesie e "profezie" sulla venuta di Cristo nel mondo antico


Per le tradizioni antiche il poeta, considerato nella sua accezione più elevata, non era semplicemente qualcuno che tramite i versi esprimeva sentimenti o idee personali. Era invece una persona in grado di comunicare una verità a lui superiore, di raccontare fatti e miti il cui valore andava ben al di là dell'individualità umana. L'invocazione alla Musa, presente all'inizio dei poemi epici, sottolinea proprio il carattere sacrale che doveva avere anticamente la poesia. Il fatto che il poeta componesse quasi con l'investitura e l' "ispirazione" della divinità poteva poi comportare che l'opera, in alcuni casi, avesse anche un valore "profetico", predicendo eventi che sarebbero accaduti in un futuro molto lontano. Uno degli esempi più sorprendenti è rappresentato sicuramente dall'accurata descrizione della società moderna fatta da Esiodo, poeta greco vissuto tra l'VIII e il VII secolo a.C., ne "Le opere e i giorni". Un certo legame tra poesia e "profezia" emerge però anche nei vaticini delle sibille, i quali i più delle volte venivano appunto espressi in versi; questo fatto ci può fare riflettere, tra l'altro, anche su come non tutti gli oracoli fossero il frutto di strani delirii o magari dell'assunzione di sostanze stupefacenti... anche perchè è davvero poco credibile che qualcuno riuscisse a comporre articolate poesie in metrica in simili stati di incoscienza (1).

Nell'epoca cristiana diversi di questi oracoli sono stati interpretati come delle predizioni della venuta di Cristo, che avrebbe portato ad una nuova età dell'oro e ad una "restaurazione" in senso spirituale.
Il caso più noto, sebbene non sia affato l'unico, è ovviamente quello del vaticino riportato all'inizio della IV Egloga di Virgilio; in questa poesia si parla di una "vergine" e di un "bambino che sta per nascere", grazie al quale terminerà l'epoca di decadenza.

"Oh Muse sicule, alziamo un poco il tono del canto:
non a tutti piacciono gli arbusti e le umili tamerici;
se cantiamo le selve, le selve siano degne di un console.
E' arrivata l'ultima età dell'oracolo cumano:
il grande ordine dei secoli nasce di nuovo.
E già ritorna la vergine, ritornano i regni di Saturno, (2)
già la nuova progenie discende dall'alto del cielo.
Tu, o casta Lucina, proteggi il fanciullo che sta per nascere,
con cui finirà la generazione del ferro e in tutto il mondo
sorgerà quella dell'oro: già regna il tuo Apollo. [...]"

Se aggiungiamo che, poco più avanti, Virgilio allude anche ad un serpente che "scomparirà", è facile intuire perchè, in epoca Medioevale, questi versi valsero al poeta latino la fama di grande profeta. A noi però sono giunti almeno atri due antichi oracoli (risalenti, secondo la tradizione, ai tempi di Romolo o addirittura della guerra di Troia) che parlerebbero della venuta di Cristo, e che ci sono stati riferititi dai padri della Chiesa. 
S. Agostino ne "La Città di Dio" (3) dice infatti che "la Sibilla Eritrea ha dato allo scritto alcune manifeste divinazioni sul Cristo", e racconta anche che, nella versione greca di uno di questi oracoli, le lettere iniziali dei versi componevano la scritta ησοῦς Χριστός Θεoῦ Υιός Σωτήρ (Gesù Cristo, Figlio di Dio, Salvatore); questa frase inoltre rimandava evidentemente all'acrostico ΙΧΘΥΣ, "cioè pesce, termine con cui simbolicamente si raffigura il Cristo perché ebbe il potere di rimanere vivo, cioè senza peccato, nell'abisso della nostra mortalità, simile al profondo delle acque". La predizione in questione è comunque decisamente interessante, e comincia così:

"Segno del giudizio: la terra sarà madida di sudore.
Verrà dal cielo Colui che sarà re per sempre,
cioè per giudicare di presenza la carne e il mondo.
In questo fatto vedranno Dio il miscredente e il credente,
in alto con i santi alla fine del tempo.
Vi saranno col corpo le anime che egli giudica,
quando il mondo giace incolto in dense sterpaglie.
Gli uomini disdegnano gli idoli e ogni tesoro. [...]"

S. Agostino precisa anche che questi versi non si riferiscono al culto degli dèi falsi dei pagani, e che anzi parlano apertamente contro di essi. 
Un altro vaticino lo si trova invece in Lattanzio, e riguarderebbe la morte di Cristo. I versi sono riportati sparsi nel testo, ma sempre S. Agostino li rimette assieme e ce li propone così:

"Cadrà poi nelle mani empie degli infedeli, daranno schiaffi a Dio con mani contaminate e getteranno sputi velenosi dalla turpe bocca ed egli senza resistenza offrirà il dorso ai colpi. Nel ricevere schiaffi tacerà affinché non si sappia che è il Verbo e da dove viene per morire ed essere coronato di spine. Per cibo gli diedero il fiele e per bevanda l'aceto, gli offriranno questa vivanda dell'inospitalità. Tu, stolto, non hai compreso il tuo Dio che si mostra alla coscienza degli uomini, ma lo hai perfino coronato di spine e gli hai mescolato nella bevanda il fiele disgustoso. Sarà spaccato il velo del tempio e a mezzogiorno per tre ore scenderà una notte tenebrosa. Morirà e sarà nel sonno della morte per tre giorni e allora, ritornato dal regno dei morti, verrà per primo alla luce dopo aver mostrato ai risorti le primizie della risurrezione".

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Note:

(1) Sono molti - anche e soprattutto in ambito "accademico" - coloro che cercano di spiegare in questo modo gli elementi poco comprensibili delle tradizioni antiche. C'è chi è arrivato ad ipotizzare che anche gli iniziati ai misteri eleusini si drogassero, perchè tra i simboli utilizzati c'era la spiga di grano; secondo questa teoria, infatti, dalle spighe affette da segale cornuta i greci avrebbero ricavato una sostanza allucinogena simile all'LSD (!), che avrebbe provocato certe esperienze "mistiche", a cui allude ad esempio Plutarco. E' un'interpretazione decisamente grossolana, ed è più probabile che il vero significato sia invece da ricercare nel simbolismo del seme: quest'ultimo infatti "muore" nella terra, per dar vita in seguito ad una nuova "pianta" e realizzare così ciò che prima esisteva solo "in potenza".

(2) I regni di Saturno coincidono in tutto e per tutto con l'"età dell'oro"

(3) S. Agostino, La città di Dio, XVIII, 23

14 gennaio 2012

Il mistero del re ferito


La storia del Re Pescatore...

"Come fosti disgraziato quando non facesti quelle domande! Sarebbe stato un tal piacere per il buon re invalido che avrebbe ritrovato l'uso delle sue gambe e sarebbe ridivenuto capace di governare la sua terra." (Chretien de Troyes, Perceval)

Sono diversi i racconti di epoca medievale in cui si narra di un re, solitamente connotato da una grande importanza, che in seguito ad alcune vicende è rimasto ferito oppure risulta gravemente ammalato. Secondo la leggenda, lo stesso re Artù - che sarebbe ferito o addirittura in uno stato simile alla morte - riposerebbe nella mitica isola di Avalon, in attesa di far nuovamente ritorno nel mondo.
Nel Perceval di Chretién de Troyes questo sovrano è il "Re Pescatore", uno strano personaggio - reso invalido da una ferita all'anca - che il protagonista del romanzo incontra per la prima volta proprio su una barca, mentre è intento a pescare. Dopo una breve discussione il re invita Perceval nel suo castello, situato non molto lontano, dove si terrà una cena sontuosa. I due prendono posto a tavola, ma prima che vengano servite le pietanze fa il suo ingresso in sala il "corteo del Graal": inizialmente entra un valletto, che porta con sé una lancia splendente, dalla cui  punta scendono delle gocce di sangue. Perceval osserva meravigliato questa scena, e in cuor suo vorrebbe chiedere al padrone di casa che cosa rappresenti la lancia sanguinante. Gli vengono tuttavia in mente le sagge parole del suo maestro di cavalleria, che lo aveva messo in guardia dal parlar troppo, e decide dunque di tacere. Poco dopo fanno il loro ingresso altri valletti, che reggono dei grandi candelabri d'oro, e infine appare una bellissima fanciulla che nelle mani tiene "un Graal", fatto d'oro e di pietre preziose. Il Graal sembra risplendere di luce propria, ed anzi illumina la sala di un chiarore così grande "che le candele impallidirono come le stelle o la luna quando si leva il sole". Ancora una volta Perceval vorrebbe sapere di più del Graal e del suo significato ma, nonostante ció, rimane in assoluto silenzio. Dopo la cena il re e Perceval decidono di andare a dormire. Al suo risveglio il protagonista trova però il castello completamente deserto, e anche provando a chiamare a gran voce il Re Pescatore e i suoi valletti non ottiene alcuna risposta. Monta allora sul suo cavallo ed esce dal portone del palazzo che al suo passaggio si chiude, apparentemente da solo. Prosegue il suo cammino, e lungo la strada incontra una ragazza (che si rivelerà essere sua cugina) alla quale racconta la sua ultima avventura. La giovane ascolta la storia, ma lo rimprovera aspramente di non aver chiesto nulla del Graal, perchè se lo avesse fatto il Re Pescatore sarebbe miracolosamente guarito, ed assieme a lui sarebbe tornato a risplendere anche il suo regno, caduto in rovina da quando il re è stato ferito. 

...e il suo significato

"Qui il re del Graal appare evidentemente come colui che, constatando la propria impotenza, come pescatore di uomini cerca l'eletto, l'eroe". (Juius Evola, Il Mistero del Graal)

Per quanto riguarda il significato simbolico di questo personaggio, bisogna prima di tutto porre l'attenzione sul suo particolare nome (di Re-Pescatore). Come abbiamo visto, questo re, pur essendo ferito, pratica realmente la pesca. Il titolo di Pescatore potrebbe però simbolicamente far riferimento al sacerdozio: nei Vangeli si può leggere che Cristo disse ai suoi Apostoli "vi farò pescatori di uomini". Si può notare anche che una delle principali insegne del Romano Pontefice è proprio l'"anello del pescatore", chiamato altrimenti "anello piscatorio": si tratta di un anello d'oro che presenta un bassorilievo raffigurante S. Pietro (che di mestiere faceva appunto il pescatore) mentre pesca su una barca.

Il Re del Graal sarebbe quindi un Re-Sacerdote, equiparabile in questo alla leggendaria figura del Prete Gianni. Inoltre questo personaggio (in cui si uniscono sacerdozio e regalità), rappresenta veramente la Tradizione nella sua essenza, che in effetti è come se fosse "ferita": allo stato attuale delle cose si manifesta cioè come apparentemente mutila ed impossibilitata di esprimersi in tutta la sua pienezza, proprio come un re che - a causa delle sue ferite - non può governare pienamente il suo regno. Non si tratta però di una situazione irreversibile, perché c'è sempre la possibilità che qualcuno, particolarmente qualificato e dotato della giusta predisposizione d'animo, "chieda del Graal", lo cerchi, e che in questo modo possa operarsi la miracolosa guarigione.

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24 dicembre 2011

Buon Natale a tutti!

Pellegrino di Mariano, Adorazione dei pastori, XV secolo
Tanti auguri di un buon Natale a tutti voi! (lo so, nel fare gli auguri dimostro sempre una grandissima originalità... persino io ne rimango stupito!).

Aggiungo due parole sul simbolismo dell'immagine: la frattura nel terreno che si può osservare in basso a sinistra è un elemento abbastanza ricorrente nell'iconografia cristiana, fin dai primi secoli; ha la funzione di separare il Sacro, in questo caso Gesù, la Vergine e san Giuseppe, da ciò che invece è più "profano", in questo caso i pastori. Anche il fatto di porre la Sacra Famiglia su un piano più rialzato ha lo scopo di darle una maggiore importanza. 
Similmente le strane nuvole sulle quali si trovano Dio Padre e gli angeli costituiscono un elemento di separazione, che suggerisce come nell'immagine sia rappresentato il Cielo in senso metafisico. La Colomba bianca inviata dal Padre simboleggia ovviamente lo Spirito Santo.

22 dicembre 2011

Sui simboli "precristiani"






















Il mese di gennaio (Ianuarius),
 raffigurato con le sembianze
 del dio latino Giano (Ianus).
Scultura situata nel duomo
di Parma.

Non è certo un mistero che in diverse chiese medievali si possano osservare alcuni simboli che non hanno un'origine propriamente cristiana. Si tratta di simboli che, a seconda dei casi, derivano dal mondo greco-romano, dall'astronomia (o dall'astrologia, visto che in tempi passati queste scienze non erano poi così separate) oppure da antichissime tradizioni locali, che ormai si sono spente da secoli, se non da millenni. Ci si può chiedere allora quale sia il motivo della presenza di questi simboli e, soprattutto, come mai i cristiani di un tempo li abbiano accolti e pienamente accettati all'interno dei loro luoghi di culto. Non si può infatti risolvere tutta la questione dicendo semplicemente che gli uomini medievali non conoscevano il significato di certe immagini, oppure che queste ultime avevano solo uno scopo vagamente "decorativo" o "estetico". Una simile tesi non fa altro che attribuire la grave ignoranza dell'uomo moderno in materia di simboli a persone che sono vissute molti secoli prima di noi, e che su questo argomento hanno invece dimostrato davvero una grande sapienza. 

Quindi la prima cosa da tenere presente è che, con ogni probabilità, l'uso di queste raffigurazioni era pienamente consapevole. La seconda è che, contrariamente a quanto oggi si tende a credere, la Chiesa in passato non si oppose in toto alle culture preesistenti al cristianesimo. Ovviamente vennero categoricamente condannati i numerosi elementi del mondo pagano che erano incompatibili con la fede in Cristo, come il culto degli antichi dei o le superstiziose pratiche di magia e di divinazione. Tutto quello che peró non si poneva in contrasto con il cattolicesimo fu tranquillamente tollerato, già nell'epoca dei Padri della Chiesa. Si pensi ad esempio a come S. Agostino sostenesse che non solo i cristiani potevano prendere dalla filosofia antica quanto c'era di buono, ma anche che dovevano farlo: 



"Non solo non dobbiamo temere quello che hanno detto i filosofi antichi, soprattutto i platonici, quando i loro detti sono veri e congeniali alla nostra fede, ma dobbiamo rivendicarli da loro come da ingiusti possessori [...] Così, se è vero che le dottrine dei pagani contengono elementi falsi e superstiziosi o inutili che ciascuno di noi, secondo le parole del Cristo, uscendo dalla società pagana, deve odiare ed evitare, è anche vero che le discipline liberali sono adattabili all'uso della verità ed esistono, sempre fra i pagani, utilissimi precetti morali e persino riferimenti al culto di un Dio unico". 
(S. Agostino, la dottrina Cristiana, II, 40)



Questi insegnamenti dei Padri della Chiesa vennero in seguito fedelmente applicati, e il caso più evidente è appunto quello della filosofia. Durante il Medioevo (almeno a partire da un certo periodo) ebbe una grande diffusione soprattutto il pensiero di Aristotele, tanto che "la filosofia" finì per identificarsi con quella aristotelica e "il filosofo" (per eccellenza) divenne proprio Aristotele. Bisogna comunque tenere presente che queste conoscenze provenienti dal mondo greco-romano ebbero più che altro un ruolo strumentale, e furono sempre subordinate alla verità del Vangelo: la Scolastica esprimeva chiaramente questo importante concetto con il motto latino "philosophia ancilla theoligiae", la filosofia è ancella (nel senso di servitrice) della teologia. Del resto, il cristianesimo sarebbe stato, nella sua vera essenza (cioè nella dottrina), esattamente lo stesso anche senza la ricezione di questi elementi: cade così anche l'assurda accusa di alcuni protestanti che ritengono che la Chiesa cattolica sia diventata col tempo una "religione pagana". Quanto detto per la filosofia potrebbe far quindi ipotizzare che lo stesso processo di parziale "accettazione" sia avvenuto anche per alcuni simboli, più antichi dello stesso cristianesimo, che sono stati riprodotti sia perchè non rappresesentavano qualcosa che contrastava con la fede cattolica sia perchè in alcuni casi erano validi "supporti" per esprimere principi della sua dottrina.

14 dicembre 2011

Arte medievale e rinascimentale a confronto


Da Il mistero delle cattedrali di Fulcanelli
"Gli artisti, trascinati dalla grande corrente di decadenza che ebbe sotto François I il nome paradossale di Renaissance  (Rinascimento), incapaci d'uno sforzo creativo eguale a quello dei loro antenati, completamente all'oscuro della simbologia medioevale, si dedicarono alla riproduzione di opere bastarde, senza gusto né carattere, senza pensiero esoterico, invece di continuare e sviluppare l'ammirevole e sana creatività francese.  Architetti, pittori, scultori, preferendo la loro gloria a quella dell'Arte, si ispirarono agli antichi modelli contraffatti in Italia. I costruttori del medioevo erano ricchi di fede e modestia. Artigiani anonimi di puri capolavori, essi costruirono per la Verità, per l'affermazione del loro ideale, per diffondere la nobiltà della loro scienza. Quelli del Rinascimento, invece, preoccupati soprattutto della loro personalità, gelosi del proprio valore, costruirono per rendere famoso il loro nome alla posterità. Il medioevo deve il proprio splendore all'originalità delle proprie creazioni; il Rinascimento deve la sua moda alla servile fedeltà delle sue copie. Là un pensiero, qui una moda. Da un lato, il genio; dall'altro, il talento. Nell'opera gotica, la tecnica resta sottomessa all'Idea: mentre nell'opera rinascimentale la tecnica domina e cancella l'Idea. L'una parla al cuore, al cervello, all'anima: è il trionfo dello spirito; l'altra si rivolge ai sensi: è la glorificazione della materia. Dal XII al XV secolo, povertà di mezzi ma ricchezza d'espressione; a partire dal XVI, bellezza plastica, mediocrità d'invenzione. I mastri medioevali seppero animare il comune calcare; gli artisti del Rinascimento lasciarono il marmo freddo ed inerte. L'antagonismo di questi due periodi, nati da concezioni opposte, spiega il disprezzo del Rinascimento e la sua profonda ripugnanza per tutto quello che era gotico. Un tale stato di spirito doveva risultare fatale all'opera del medioevo; e sono dovute proprio ad esso le numerosissime mulilazioni che oggi dobbiamo deplorare."

29 novembre 2011

L'iniziazione alla cavalleria nel Perceval


I romanzi medievali sul Graal possono essere sicuramente apprezzati per diversi motivi, quali la trama, lo stile, o i dialoghi inverosimili (e abbastanza divertenti) che in essi abbondano. Accanto a tutti questi elementi si possono trovare però anche tracce di un preciso simbolismo che, a seconda dei casi, risulta essere più o meno evidente, ma che è comunque presente.
La cosa non dovrebbe stupire più di tanto anche perché la cavalleria, che in questi racconti costituisce uno degli argomenti centrali, durante il Medioevo era una delle principali forme dell'iniziazione cristiana. A tal proposito, può essere curioso notare di sfuggita come uno dei più grandi autori di questi romanzi, Chretien de Troyes, sia nato proprio nella cittadina in cui nel 1128 si svolse il famoso concilio della Chiesa cattolica che approvò l'ordine e la regola dei cavalieri Templari.

Gli elementi simbolici a cui mi riferivo poc'anzi sono ovviamente presenti anche nel famoso Percaval, fin dall'inizio del racconto. Qui il protagonista (Perceval) viene inizialmente presentato come un ragazzo di campagna che non ha ancora un nome preciso, è piuttosto ingenuo, ed è completamente ignorante su tutto ciò che riguarda i buoni costumi della cavalleria; anzi, in vita sua non ha mai visto un cavaliere, dal momento che la madre per la paura di perderlo ha sempre cercato di tenerlo lontano dai militi e dai fatti d'arme. Perceval, inoltre, è sempre vissuto ai margini della Guasta Foresta (detta anche Foresta Desolata), che è il punto di partenza delle sue avventure, e che corrisponde simbolicamente alla "selva oscura" nella quale si troverà Dante all'inizio della sua Commedia. La rozzezza e l'ingenuità del ragazzo sottolineano poi come Perceval sia ancora una sorta di "pietra grezza", non ancora lavorata: il protagonista partirà dunque per cercare l'iniziazione alla cavalleria, che, dopo alcune peripezie, gli verrà concessa da un vassallo. Questi lo accoglie amichevolmente nel suo castello, gli insegna a combattere con la lancia e con la spada, lo istruisce sui nobili costumi e gli spiega come dovrebbe svolgersi un duello leale.

Perceval impara in fretta, e ben presto "tiene la lancia e lo scudo con tanta abilità come se avesse passato i suoi giorni nei tornei e nelle guerre". Il vassallo, dopo alcuni giorni, decide allora di concedergli  l'iniziazione: lo veste, gli calza lo sperone destro e gli cinge la spada al fianco. La consegna (cioè la "tradizione", nel senso etimologico del termine) della spada simboleggia l'avvenuta investitura: "«Consegnandovi la spada» gli dice, «vi conferisco l'ordine della cavalleria, che non tollera alcuna bassezza»". Vien fatto così un nuovo cavaliere cristiano; il rito si conclude, ma non prima di aver formulato un solenne invito al silenzio: «Guardatevi dal parlar troppo: a colui che non sa trattenere la lingua, spesso sfuggono parole che possono essere considerate villanie. Questo dicono i saggi: troppe parole, peccato sicuro; rifuggite dunque questo peccato».

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12 novembre 2011

La dichiarazione dei diritti degli animali

Un camaleonte che chiede maggiori diritti e più zoocrazia
Questa dichiarazione [...] pone esplicitamente all'articolo 2 la premessa minore che l'uomo è un animale come gli altri. Se ne trae la conclusione che l'uomo ha pari diritti di un topo di fogna, di una mosca, di una zanzara o di una cimice
Epiphanius, Massoneria e sette segrete, pag. 937

Questo commento di Epiphanius alla “ Dichiarazione universale dei diritti degli animali” potrebbe apparire a prima vista esagerato o, al limite, potrebbe anche suscitare dell'ilarità. Si tratta però di un'affermazione che rispecchia in tutto e per tutto lo spirito e il contenuto della suddetta dichiarazione, proclamata dall'Unesco a Parigi nell'anno 1975. La dichiarazione non è molto conosciuta, se non tra gli animalisti e tra qualche “complottista” e, secondo Epiphanius, essa è stata resa poco nota proprio per ragioni di prudenza, considerato il suo contenuto. Questa carta, in effetti, non si limita ad attribuire agli animali un generico diritto alla tutela, ma mette esplicitamente questi ultimi sullo stesso piano degli esseri umani.
L'articolo 1 infatti stabilisce che “Tutti gli animali nascono uguali davanti alla vita e hanno gli stessi diritti all'esistenza”; e l'articolo 2 recita:  “a) ogni animale ha diritto al rispetto; b) l'uomo, in quanto specie animale, non può attribuirsi il diritto di sterminare gli altri animali o di sfruttarli violando questo diritto. Egli ha il dovere di mettere le sue conoscenze al servizio degli animali”.

Se tutti gli animali sono uguali fra loro, e se a sua volta l'uomo è una specie animale, logica vuole che l'uomo abbia esattamente gli stessi diritti degli altri animali, se non minori, visto che egli deve mettere se stesso e le proprie conoscenze al serivizio delle altre specie. E, sia ben chiaro, non si sta parlando degli "animali domestici" o magari dei "mammiferi"; si sta parlando di tutti gli animali, anche delle mosche. Questo tipo di logica, del resto, sembra essere accettato anche dalla legge italiana, visto che il Codice Penale (Art. 544-ter.) arriva a prevedere la reclusione da tre mesi ad un anno (o una multa da 3.000 a 15.000 euro) per chi maltratti gli animali "senza necessità", senza però specificare quale tipo di animali. Perciò in futuro si faccia attenzione, perchè anche uccidere una zanzara potrebbe costare molto caro.

Si potrebbe proseguire a lungo con questa critica, analizzando le non-logiche ambientaliste punto per punto. Invece di dilungarmi, preferisco però concludere con una domanda: l'ambientalismo cerca di umanizzare gli animali, o di animalizzare l'uomo?